Megara Iblea, nascita di una colonia

Pochi popoli antichi hanno osato avventurarsi sui mari in cerca di fortuna come hanno fatto i Greci. È nell’VIII sec. a.C. che questi indomiti marinai cominciano, sulle loro fragili ma agili imbarcazioni, a solcare il Mediterraneo in cerca di nuovi approdi commerciali o di terre fertili da colonizzare. La Spagna, la Francia, le coste del Nord Africa, il Medio Oriente, il Mar Nero: nel giro di un secolo, ovunque nascono nuove colonie fondate dalle grandi poleis elleniche.
In Italia sono le coste meridionali, la cosiddetta Magna Grecia e la Sicilia ad essere meta dei Greci. Si tratta probabilmente di uno dei capitoli più affascinanti della storia greca. Molti storici ci hanno tramandato racconti di questa epopea e, oggi, a quasi tremila anni di distanza, non possiamo fare a meno di chiederci cosa spingeva dei giovani ad abbandonare quanto avevano in patria per imbarcarsi in una rischiosa avventura, quale era la loro vita e quali i loro bisogni, una volta sbarcati in una terra nuova e sconosciuta.
Pochi siti archeologici ci vengono in aiuto, per rispondere a questi quesiti, quanto le rovine di Megara Iblea, vicino Siracusa. Si tratta di un sito poco conosciuto al pubblico ma, al tempo stesso, fondamentale per la conoscenza archeologica. Passeggiando tra le sue rovine, magari con le opere di Tucidide - uno dei massimi storici dell’antichità - tra le mani è quasi possibile far rivivere un’antichissima avventura.
Tutto parte da una piccola città della Grecia, Megara Nisea: è lì che un uomo di nome Lamis, raccoglie intorno a se attrezzature, navi e soprattutto dei giovani disposti a mettersi in gioco e provare il tutto per tutto per crearsi una nuova vita in una terra lontana, la Sicilia, un’isola fertile, ricca di risorse dove le altre grandi poleis greche avevano già fondato colonie.
Erano un difficile viaggio per mare ed una terra sconosciuta ed abitata da altre popolazioni ciò che attendevano i Megaresi in quel 728 a.C. quando salparono alla volta dell’occidente.
Lamis, il capo della spedizione era una figura particolarissima: è quello che i Greci chiamano l’Ecista della spedizione, la guida indiscussa che accomunava i poteri civili, militari e religiosi. Ogni spedizione doveva, infatti, ricevere il giusto favore divino per avere garanzia di riuscita. Per questo motivo, prima della partenza, l’ecista doveva recarsi al santuario di Apollo a Delfi per interrogare l’oracolo riguardo l’esito del viaggio.
Una volta arrivati sul posto, poi, avrebbe avuto il compito di trattare con i capi locali, di decidere il luogo ove stabilire la colonia, di organizzarne la difesa e di suddividere gli spazi religiosi, pubblici e privati secondo regole e proporzioni ben precise.
Stando a quanto ci racconta Tucidide, una volta sbarcati nella Sicilia orientale, Lamis cercò, per i suoi, l’appoggio dei coloni calcidesi che avevano da poco fondato Leontini. I Megaresi, infatti, erano poveri di uomini e di mezzi. La convivenza tra i due gruppi di coloni fu però difficile, probabilmente anche per le differenze culturali, i Megaresi erano infatti di stirpe dorica mentre i Calcidesi erano di stirpe ionica.
Dopo poco tempo Lamis ed i suoi vennero letteralmente “espulsi” da Leontini e dovettero trovare rifugio nel vicino centro indigeno di Thapsos, dipendente dalla potente Pantalica.
È qui che Lamis si mostra degno della fiducia accordatagli: non cerca la lotta e la sopraffazione dei Siculi come avevano fatto i precedenti coloni. Lamis si reca a Pantalica a conferire col loro re Iblone. Il colloquio è costruttivo ed il sovrano dona ai coloni un’ampia pianura ove costruire la città che hanno tanto sognato. La nuova colonia verrà chiamata Megara Iblea in onore della madrepatria e del re siculo che era stato tanto benevolo nei loro confronti.
Una volta deciso il luogo ove stabilirsi, la colonia non veniva “improvvisata”, ma era in questo momento che l’ecista si trasformava in geometra, decidendo l’assetto urbano che la città avrebbe avuto, assegnando le aree ai templi e agli edifici pubblici e i piccoli lotti di terra su cui i coloni avrebbero costruito la loro casa.
Ma il destino non favorì i Megaresi e la loro città ebbe una vita breve, perché, dopo appena 250 anni, nel 483 a.C., venne distrutta dai vicini della potente Siracusa. Così le rovine della città sono rimaste “congelate” alla sua fase arcaica, dandoci modo di studiare l’assetto che la città primitiva aveva. In questo senso che le rovine di Megara Iblea sono importantissime per gli archeologi.
Ogni colono, al momento dello sbarco, riceveva un piccolo lotto di terreno di circa 25 m2 ove costruire la propria abitazione. Questa non era altro che uno spartano monolocale, più che sufficiente per le modeste necessità dei cittadini che erano quasi tutti giovani che ancora dovevano formarsi una famiglia. Lo spazio rimanente del lotto era utilizzato per un piccolo orto. Ogni colono assumeva poi le funzioni che gli erano proprie riprendendo il mestiere imparato in patria. Della spedizione facevano sempre parte ceramisti e fabbri, contadini e cavapietre, tutte le maestranze necessarie per permettere alla colonia una vita autonoma. Gli edifici pubblici ed i templi in particolar modo, venivano costruiti con il contributo di tutta la cittadinanza.
Oltre alle mura fisiche, lungo i confini urbani venivano impiantati dei luoghi di culto per le divinità più venerate col preciso scopo di garantire, oltre alla protezione fisica, anche la protezione divina alla città.
Ancora oggi, camminando tra le rovine di Megara Iblea è possibile vedere i resti dei suoi edifici sacri e pubblici: l’agorà - la piazza principale -, il pritaneo, ove si riunivano i magistrati della città, i templi e i santuari.
Una cosa salta all’occhio, anche dell’osservatore meno attento. Le abitazioni private sono piccole e costruite con materiali modesti, pietra poco lavorata trovata sul posto. Non è così per gli edifici della comunità. Con una mentalità lontana da quella dell’uomo moderno, non era tanto importante il lusso della propria abitazione ma che gli edifici pubblici e i templi fossero costruiti al meglio. Per questo motivo tutta la zona “monumentale” è costruita in ottimi blocchi di pietra calcarea finemente lavorati ed ornati. Per recuperare questa pietra di prima qualità fu aperta un’apposita cava da cui estrarre la pietra da costruzione che poi veniva trasportata fino a Megara, a ben 8 km di distanza!
Chi la progettò costruì per la città un’enorme piazza centrale, ampia quasi quanto quella di Atene, confidando in un grande futuro per la città che, però, come detto, non si avverò.
Lo stesso Lamis, stando a quanto ci racconta Tucidide, non ebbe mai modo di vedere la sua creatura, morì, infatti, nel centro siculo di Thapsos, poco dopo aver conferito col re Iblone.
L’archeologia ci dà un’affascinante conferma di quanto narrato dalle fonti letterarie. Tra le rovine di Thapsos, infatti, è stata trovata una tomba con un corredo greco che, secondo molti studiosi, starebbe ad indicare la tomba dell’ecista.
I Megaresi però non dimenticarono il loro fondatore. Questi, infatti, una volta morto veniva “divinizzato” al pari di un eroe e nell’agorà della città venne costruito un heroon, un apposito edificio sacro dedicato al suo culto ove i cittadini potevano fare offerte e perpetrare la sua memoria.