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Hong Kong. Un’operazione di polizia va a monte e alcuni agenti perdono la vita sotto i colpi dei malviventi… davanti agli occhi di una troupe televisiva che, impietosamente, rende pubblica l’umiliazione subita. La giovane ispettrice Rebecca Fong suggerisce di rispondere allo scandalo sullo stesso terreno, trasformando l’assalto al condominio in cui si sono rifugiati i criminali in un evento mediatico. Contemporaneamente l’ispettore Cheung, responsabile della prima operazione ed estromesso dalla seconda, porta avanti le proprie indagini per vendicare i colleghi uccisi.
Da uno dei maggiori registi di Hong Kong un film d’azione rigoroso , capace di rinnovare e attualizzare l’immagine del criminale quanto quella del poliziotto, riportando romanticismo ed eroismo nell’ambigua realtà attuale. Senza esitazione, e senza le prevedibili posizioni intellettuali occidentali, Johnny To illustra l’ineluttabilità della società dell’immagine e la necessità di imparare ad amministrarla senza perdere coerenza. Senso del dovere e narcisismo si coniugano, conducendo un’azzardata scelta mediatica (ogni uomo diventa una telecamera per un’ispettrice regista ambigua e inflessibile) verso una conclusione etica, eppure inappagante.
To attraversa una città ignota, lontana dalle rappresentazioni cui siamo abituati, fatte di grattacieli e vicoli bui: la Hong Kong cinese è rigorosa e asettica nei suoi candidi palazzi, nei suoi corridoi vuoti e stretti, dove l’irreggimentazione delle forze dell’ordine diventa inutile ottusità, infinitamente lontana dall’intraprendenza fantasiosa di dieci anni fa. La polizia e la malavita si contendono il territorio mentre i media attendono inerti la notizia: allo scoop iniziale, apparentemente casuale, segue uno stuolo di fotografi, incapaci di andare oltre le direttive e i materiali forniti dai due contendenti. Si apre un processo, finalizzato alla conquista dell’opinione pubblica, al solo fine di promuovere la propria immagine, senza che questo possa realmente influire sugli esiti della vicenda. È la realtà mediata e non la mediazione verso il reality. Lo spettatore occidentale, abituato a “film a tesi” dalla morale esplicita e inoppugnabile, vacilla davanti a un’apparente inconcludenza, non priva di interessanti e sorprendenti spunti. Cinismo, amministrazione della propria immagine, lealtà verso il proprio lavoro sono tutti, parimenti, ingredienti dell’eroismo. Ed è qui che ci conduce il regista, a ricercare negli angoli bui, incredibilmente sfuggiti all’ipercontrollo, l’idealismo di un bambino, il coraggio di un padre arresosi per il proprio figlio, la devozione di un poliziotto, la caratterizzazione di un individuo fuggito dalla massa. Il gioco di squadra avviene tra chi impara a volgere a favore della propria missione la tecnologia disponibile e chi, da quella tecnologia, rifugge in cerca di una visione più nitida.
Metacinematografico, estetizzante a tratti, il film si apre con un piano sequenza di sette minuti che attraversa le strade di Hong Kong durante lo scontro armato, a cui perdoniamo le poche inesattezze.
Gli effetti speciali, sorprendentemente moderati in un’epoca di barocchismi digitali, cedono il ruolo dominante da sempre avuto nel cinema d’azione in favore del realismo della messa in scena. Le telecamere appaiono quasi casualmente, restando sempre sullo sfondo, e altrettanto casuali appaiono le espressioni del lavoro cinematografico (si noti come l’azione di polizia venga avviata, sospesa, poi ripresa attraverso termini come “pausa”, “stop”, “azione”). Il ritmo, sebbene sostenuto, mantiene la narrazione chiara e lineare, mentre l’immagine ammicca al videogioco.