Film o documentario? Lo spettacolo dell'informazione

Linus Torvald, un informatico finlandese noto per aver creato il pinguino più famoso del mondo, ha una sua teoria sullo sviluppo della civiltà: “È fondamentalmente breve e dolce. Non darà alcun significato alla tua vita, ma ti dice cosa ti succederà. Allora: ci sono tre cose importanti nella vita. Sono i fattori che motivano qualsiasi cosa tu faccia. Il primo è la sopravvivenza, il secondo l'ordine sociale ed il terzo il divertimento. Tutto, nella vita, procede in quest'ordine. E dopo il divertimento non c'è nient'altro. Quindi da un certo punto di vista questo vuol dire che il senso della vita è raggiungere la terza fase”.
Sembra che il cinema stia proponendo una nuova lettura di questo concetto, che ha portato sui nostri schermi qualcosa di straordinariamente ovvio, eppure nuovo: il film-documentario. Ciò che arriva in Italia non è che un riflesso di un fenomeno principalmente americano, che vede spostare l'attenzione del pubblico dal film impegnato al documentario ‘leggero’. Pensiamo, innanzitutto, a Michael Moore, che ha conquistato festival e sale con Bowling a Columbine, proposto ben due volte nelle programmazioni dei cinema, prima di venir destinato alla seconda visione, ed ora con Farenheith 9/11, pamphlet pre-elettorale tutt'altro che politically correct.
La carta, decisamente vincente, è quella di proporre un'inchiesta giornalistica in maniera giocosa, presentando i fatti con i ritmi di una commedia, spezzando i tempi e, soprattutto, creando una tensione narrativa su ciò che, di per se, narrativo non sembrerebbe. La ricerca della verità, la disposizione strategica delle informazioni, l'uso sapiente della telecamera e del montaggio ci danno una pellicola che, pur raccontandoci di fatti e persone realmente ed attualmente esistenti, ci diverte e ci ammalia come un film, come un'opera di finzione e, come tale, ci trascina e ci guida emotivamente, ci conduce per mano al fianco del regista. Michael Moore, così, solleva in maniera chiara ed indolore le sue questioni e le sue risposte, lasciando a noi ed al nostro senso critico l'esigenza di sentire un'altra voce, di chiederci quante possano essere le verità.
Non diverso, ma meno evidente, è il lavoro analogo operato sul documentario animalistico: da L’orso a Microcosmos ed a Due fratelli la realtà della natura diventa, in maniera sempre più evidente, materiale da rielaborare e raccontare per mostrare un mondo divertente e comprensibile perché antropizzato, perché adattato alle nostre capacità di osservazione e comprensione.
La sfida ci affascina: assumere consapevolezza di come il nostro sapere non sia mai verità, ma piuttosto una parvenza di essa adattata alla nostra figura, equivarrebbe ad affrontare con umiltà e reale possibilità di crescita il mondo che ci circonda e, certamente, non c'è modo migliore di farlo che divertendosi. Ciò che si teme è che questi piccoli gioielli, faziosi e stimolanti, non siano altro che stelle cadenti, luci pronte a spegnersi senza traccia nel pieno del loro maggiore fulgore. Si teme che il segno lasciato sia contestuale e cronologicamente limitato (quanti di voi, ad esempio, ricordano realmente “L’orso”?), che possano fin troppo facilmente diventare loro stessi la verità, e non più uno dei sui provocatori volti.
A darci speranza è la crescita annuale di titoli come Bowling a Columbine, Il popolo migratore, Essere ed avere, o riedizioni in home video di capolavori entrati nel mito, sospesi tra documentario ed arte, come la “trilogia della vita” di Godfrey Reggio. Koyaanisqatsi, Powaqqatsi e Naqoyqatsi (in lingua Hopi, un dialetto esquimese, qatsi vuol dire “vita”), frutto di anni di meditazione e ricerca, al quale vorremmo dedicare più spazio, magari la prossima volta.
“Quindi la conclusione è che alla fine siamo tutti qui per divertirci. Allora faremmo meglio a metterci comodi, rilassarci e godercela”... ma con cautela, attenzione, orecchie dritte e mente aperta.