Inside Man: visto per voi

Una banca da svaligiare, un colpo da sventare, cinquanta ostaggi da salvare: ecco gli elementi che Spike Lee, regista ed intellettuale portavoce della comunità afro-americana negli anni Novanta, mette in tavola con il suo primo “film commerciale” affidando all’ottima interpretazione di Denzel Washington, Jodie Foster, Clive Owen, Christopher Plummer e Willem Dafoe una storia complessa, che scava nei segreti e nelle ipocrisie dell’alta finanza americana, non dimenticando la popolazione che ne raccoglie l’eredità e ne paga le conseguenze.
Apparentemente “Inside Man”, il solito heist movie,

 (genere nato dal noir attorno a storie di rapine in banca e colpi mirabolanti, dove acrobazie ed intelligenza sono il terreno di scontro tra il buono ed il cattivo) si rivela presto ben più complesso e profondo. La realtà apparente dei fatti viene continuamente messa in discussione dalle scelte dei personaggi, apparentemente incongrue, mentre la sottile sceneggiatura condanna a poco a poco i personaggi ad una condizione morale ibrida, impossibile da giudicare.
Ne nasce un’immagine stratificata ed insondabile della verità, dove la discrezione è la faccia perbene di un’omertà tutt’altro che mafiosa, eppure non meno pericolosa.
I segreti, sempre più pesanti, che ciascuno nasconde diventano strumenti per un ricatto infinito ed implicito e chi li sa custodire e giocare al momento giusto detiene il vero potere: come nei classici del genere, la metafora più chiara sta nel gioco del poker, con i suoi assi nella manica ed i suoi bluff, ma qui a vincere è chi sa ritirarsi per tempo, portando a casa il piatto della verità.
Spike Lee, che aveva già dimostrato con “La 25ª ora” di saper uscire dal ghetto e dialogare con la vasta società americana, conferma il suo sguardo a 360° sulla complessità etnica, storica, politica e, soprattutto, economica statunitense.
Qui raccoglie un progetto abbandonato da Ron Howard (in favore di Cinderella Man), sceneggiato magistralmente da Russell Gewirtz, e ne fa un film fatto soprattutto di dettagli: colpiscono i personaggi secondari, le battute fuori campo, le sequenze “di riempimento”, dove la situazione appare in tutta la sua assurdità e l’America esplicita le sue contraddizioni interne. I rapporti tra i personaggi evidenziano le tensioni e le superficialità di una società fondata sul potere e sul denaro, incapace di distinguere un Arabo da un Indiano o di trovare un termine politically correct per descrivere un ragazzino nero davanti ad un ispettore nero; ancora terrorizzata dai russi ed ossessionata dai terroristi, eppure pronta ad “offrire” alloggio e garanzie al nipote di Bin Laden o ad affidare la propria finanza ad un banchiere dal passato pesantemente ambiguo.
Pregevole è la scelta del regista di passare dal tono del thriller, che domina la prima parte del film, al giallo, in un progressivo affinamento del ruolo dell’intelletto - dei protagonisti e dello spettatore - e nella ridicolizzazione della forza fisica.
In un’epoca in cui anche il cinema si fa veicolo del costante clima di terrore in cui l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare vengono tenuti, questa scelta riconferma, agli occhi di chi scrive, l’incrollabile volontà politica di Spike Lee di contestare i sistemi di amministrazione del potere anche attraverso le scelte registiche. I lunghi movimenti di macchina, il complesso montaggio che rimescola i tempi narrativi ed anticipa le scelte operate dai personaggi, i riferimenti a film precedenti dello stesso regista creano un dialogo con lo spettatore che inchioda alla poltrona pur senza picchi emotivi o sequenze adrenaliniche, rendendo il film godibile anche per i meno smaliziati senza dimenticare i fan del grande regista afro-americano.
Interessante la colonna sonora, presa in prestito da Bollywhood, la capitale della cinematografia indiana.