Mantegna 1431-1506

Fu Andrea di sì gentili e lodevoli costumi in tutte le sue azioni, che sarà sempre di lui memoria, non solo nella sua patria, ma in tutto il mondo.

Nel cinquecentenario dalla sua morte ricordiamo l’opera artistica di Andrea Mantegna, un’artista che, come i suoi capolavori testimoniano, tra cui il famoso “Cristo morto” di Brera, armoniosamente coniuga la conoscenza dei classici alle più aperte innovazioni in campo pittorico.
Nasce a Padova nel 1431 ed è noto ai suoi contemporanei come Andrea Squarcione;

 nel 1442, infatti, viene adottato dal pittore Francesco Squarcione ed accolto nella Corporazione dei pittori della sua città d’origine.
Attivo a Venezia con il suo maestro già nel 1447 dipinge, insieme con altri giovani artisti della bottega, la Cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova, che purtroppo è andata distrutta durante l’ultima guerra mondiale. Negli anni successivi è a Ferrara e Verona dove porta a termine alcuni affreschi prima di recarsi a Mantova, nel 1457, e di ricevere l’incarico di pittore ufficiale della Corte dei Gonzaga.
È in questo primo periodo che realizza il Trittico degli Uffizi concernente L’adorazione dei Magi, la Presentazione e l’Ascensione in cui l’artista manifesta l’interesse per una narrazione pittorica a diversi piani pur realizzando una formulazione classica delle immagini e delle vicende rappresentate.
Da queste esperienze nasce la caratteristica della pittura del grande artista noto per la conoscenza dei classici e nel contempo per la scelta coraggiosa di usare scorci prospettici inusuali per il suo tempo.
Per la sua celebre Camera Picta del 1474 dedicata agli sposi Ludovico e Barbara di Brandeburgo e realizzata nel castello dei Gonzaga a Mantova, Mantegna esprime la sua creatività andando appunto ben oltre le impostazioni del racconto classico. La geniale idea di “sfondare” la volta con l’immagine di un’aperta balaustra, su cui si affacciano curiose le figure di alcune ancelle e di numerosi putti, è quanto di più innovativo ci sia al suo tempo, e costituisce una sintesi perfetta tra lo spazio reale e quello illusivo.
Lo possiamo definire un trompe-l’oeil ante litteram, con l’aggiunta di significati non soltanto visivi. Indubbiamente esso presenta un immaginario asse verticale esasperato e alquanto “difficile agli occhi”, come avrebbe detto sempre il Vasari.
Nella sua Storia dell’arte Gombrich osserva, a proposito della prime opere del Mantegna, che egli non fa un uso ostentato dell’arte della prospettiva, come Paolo Uccello, ma si serve di essa soltanto per dare solidità e fisicità ai personaggi ritratti.
Come abbiamo accennato la pratica acquisita nella bottega dello Squarcione, che aveva aperto a Padova la prima scuola artistica della storia, coinvolge e caratterizza in realtà tutti gli allievi tra cui anche il Pizzolo che dipinge nella cappella Ovetari quattro tondi con i dottori della Chiesa che sono uno dei primi tentativi di creare l’illusione di una profondità dentro una forma circolare. Agli stessi studi personali arriva il Mantegna e realizza, partendo dagli stessi presupposti, il vero e proprio racconto scenico che conosciamo, arricchito da un’altra caratteristica degli allievi dello Squarcione: il grande festone di foglie che ricorda le decorazioni dei sarcofagi romani.
L’arte di Andrea Mantegna manifesta, inoltre, una rispondenza alle ricerche da lui compiute in campo scultoreo: come avrebbe detto il Vasari, la sua è una pittura che assomiglia “più alla pietra che alla carne viva”. Grazie anche all’insegnamento di Donatello ed imitando alla perfezione le statue antiche, il Mantegna attribuisce così alla scultura un ruolo centrale nelle arti.